Un elenco impossibile
Elencare quanto fatto nell'arco di circa mezzo secolo sarebbe impossibile, anche avendo le doti
e la precisione di un ragioniere. Se frugo al meglio nella memoria e tento di ricostruire i vari passaggi del mio percorso, la prima cosa che devo dichiarare è la frammentarietà delle "pezze giustificative" e la sparizione, dovuta a distruzioni, dispersioni, appropriazioni non autorizzate, traslochi e altro ancora, di decine e decine di pezzi di ogni dimensione e materiale. Ma soprattutto, se mi volto indietro, vedo un numero enorme di cose rimaste solo nella mia mente…



Zapping, o la morte presunta dell'arte
Non c'è inizio, quindi non c'è fine; c'è tutto, quindi non c'è nulla. Forse è meglio rinunciare a rappresentare le cose, lasciandole libere di espandersi e mostrarsi per quel che sono. Non capisco granché di filosofia, ma mi sono fatto l'idea che il nostro esistere oggi sia come un vivere ad impulsi, manovrati da un gigantesco telecomando del quale non si capisce chi abbia il vero controllo, né tanto meno se ve ne sia uno. Siamo in un caleidoscopio di usa e getta. Nel mondo saturo dell'occidente non ci sono più città ma sterminate periferie, l'urbanistica è morta insieme a religione, politica, sessualità, famiglia, identità e via aggiungendo, in ordine sparso di apparizione. Figuriamoci in tutto questo quale può essere il ruolo dell'arte! L'artista, forse più di qualsiasi altro essere dotato di un cervello per così dire evoluto, è costretto a guardare la realtà come attraverso l'occhio parcellizzato di una mosca.



Ci va il tempo che ci va
Sono sempre convinto che nell'arte così come nella vita, ivi compreso nel fare politica, la dignità, la coerenza e l'onestà intellettuale siano valori insostituibili. Faciloneria, pressapochismo, estemporaneità sono
cose che non durano: se si pretende di costruire sulla sabbia è bene sapere come vanno a finire le cose…
Negli ultimi cinquant'anni tutto è avvenuto e avviene troppo in fretta, senza la possibilità di digerire, di metabolizzare, di riflettere. Dobbiamo spingerci sempre più in avanti e in un tempo sempre più ristretto, in una prospettiva di eterno presente, dove la progettualità non ha diritto alcuno di cittadinanza. In un tale contesto, dove persino la politica ha perso capacità di analisi e di prospettiva, le arti non potevano non risentirne. Ecco, dunque, la Babele, il disordine dei linguaggi, la coesistenza e la contraddittorietà dei gesti e delle rappresentazioni più diverse e lontane.



Provvisorietà consapevole
Quando si guarda un manufatto proveniente dalle grandi civiltà del passato, colpisce il suo essere frutto di lentissimi mutamenti, di meditazioni e di ostinata fedeltà alla tradizione. Non secondario è l'uso di materiali durevoli, quasi che tutto dovesse essere immortale. Nella modernità, invece, tutto è dichiaratamente provvisorio e relativo, compreso qualsiasi atto artistico che può essere, dunque, veicolato da qualsiasi materiale, sia esso effimero o addirittura di scarto. Sono prodotti che vivono un solo attimo in più di un qualsiasi elettrodomestico. Viviamo condizionati dal senso del limite e l'arte non vi sfugge; anzi, spesso lo sottolinea nei modi più gratuiti e plateali. Come non esistono più le ideologie totalizzanti e i grandi afflati religiosi, da tempo non esiste più l'arte con la "a" maiuscola, quella che esigeva atteggiamenti reverenziali e attribuiva agli artisti una sorta di funzione sacerdotale. L'uomo-artista preistorico che dipingeva la sua grotta con figure di animali a scopo propiziatorio aveva un ruolo sociale preciso: il "gesto per il gesto" praticato oggi vorrebbe rimandare a quella libertà, ma è generalmente fine a se stesso e privo di scopo, destinato a pochi iniziati e agli altari del possesso esclusivo di chi deve esibire la ricchezza come una bandiera.



Mattoni
Credo che l'uso della terracotta sia stato una sorta di predestinazione. Intorno ai quindici anni trascorrevo ore ed ore a incidere i mattoni del selciato antistante la casa dove sono nato e cresciuto, rovinando i cacciavite di mio padre che usavo a mo' di scalpello. Uno di questi, sopravvissuto alle varie traversie, l'ho ritrovato qualche anno fa e rivedendolo a distanza di decenni, mi ha sorpreso la straordinaria somiglianza con alcune "praline" segnatissime che avevo inconsapevolmente prodotto negli anni '90, in parallelo a triangoli rigati e a più vari "biscotti".



Malta e cemento
Da ragazzino vivevo alla Stanga, una zona appena fuori porta, che in quegli anni iniziava la sua inarrestabile espansione. Ero attratto in modo irresistibile dai cantieri delle nuove case dove protagonisti incontrastati erano i muratori, uomini che, pietra su pietra, tiravano su muri che modificavano quotidianamente l'aspetto del mio piccolo mondo. Mi affascinava la precisione con cui facevano la malta e la impiegavano in un modo che mi pareva miracoloso: un materiale semplicissimo ma niente affatto vile, che serviva per costruire cose enormi e solidissime. Rubando con gli occhi quanto scaturiva dal lavoro dei muratori ho imparato moltissimo; credo che proprio da questo sia nata la voglia di realizzare grandi oggetti di cemento o di "affogare" dentro la malta piccole terrecotte, come fossero sculture fossili. Anche i materiali più poveri possono aiutare a disegnare sul cielo, l'importante è agire con misura e rispetto, come ha fatto magistralmente Carlo Scarpa.



Felicità del fare
Distillare le forme che ti si depositano dentro, anno dopo anno, come intuizioni inconsapevoli, disegnarle, realizzarle, proporle nei e per i contesti più impensabili… Chiamare tutto ciò scultura è improprio, ma non trovo di meglio. Si tratta di cose che penso e realizzo senza più ansie di riconoscibilità e coerenza formale, che un tempo cercavo ad ogni costo. Possono stare in una mano o alzarsi fino verso il cielo; possono essere di terracotta, di ferro o calcestruzzo; la loro combinazione mi emoziona e mi fa stupire sempre della forza che ha il disegno di un oggetto posto nell'ambiente, non importa se artificiale o naturale. Ho messo in piedi via via tanti stilemi che sembrano ripetuti e che, invece, danno origine a infinite varianti. È una felicità del fare, un dono che mi è stato dato e per il quale sono religiosamente riconoscente.



Canto da solista
Non avendo avuto l'occasione di frequentare con la necessaria assiduità mostre e gallerie, né di informarmi su tutto il dibattito e sulle proposte che si sono succedute negli anni in cui mi occupavo d'altro e a tempo pieno, ho difficoltà a definirmi all'interno di una corrente artistica o di una scuola. La realtà è che sono rimasto fermo agli amori giovanili, ai maestri come Vedova, Santomaso e Viani che frequentavo e conoscevo bene, e poi a Fontana e Burri dei quali ho sempre avvertito la grandezza e il rigore della ricerca. Esorcisti, esploratori di mondi prima ignorati, scopritori di materie ed esecutori di gesti assoluti: così mi appaiono ancora ogni volta che guardo qualche loro lavoro. Artisti dai quali ho tratto lezioni e comportamenti che spesso sento riaffiorare quando incido o pratico bucature sulla creta inerte, che così pare assumere altra vita e dimensione, o quando taglio il ferro e lascio che il tempo dia vita alle sue ruggini… Per questo, credo, la definizione di "solista" non mi dispiace, perché si associa ad un percorso sia artistico sia politico dove mi è capitato di cantare spesso fuori dal coro, specie quando i conformismi mi apparivano troppo facili e plateali. Stare dentro le righe degli spartiti è spesso una cosa comoda e gratificante e ti può anche aiutare a fare, come si dice, carriera: diventi facilmente riconoscibile, ma a lungo andare la fisionomia che ottieni si irrigidisce, rischiando di diventare una maschera che ti imprigiona. Nel lavoro artistico, specie se coltivato con discontinuità, le pause ed il continuo attraversamento di altri interessi mi hanno imposto passaggi, esperienze e innamoramenti disomogenei che, a vederli oggi, considero positivi.



Disegnare e ancora disegnare
Il disegno è la forza principale, anche se non assoluta, che determina, prevede e organizza le forme artificiali pensate in qualsiasi disciplina creativa. Spesso dopo le realizzazioni sparisce dalla scena o diventa una semplice pezza giustificativa documentaria, ma senza di esso e le innumerevoli varianti che consente non ci sarebbe la cornice dentro la quale si muove la vita di tutti. È disegnando a lungo e in grandi quantità montagne, colline e isole sempre più ridotte all'osso che sono nate tante delle mie forme degli anni '90. Da quei triangoli collocati in piano sono emersi tanti piccoli paesaggi, inconsueti in scultura, divenuti poi stilemi e alfabeti che, montati su strutture di ferro simili ad antenne, si sono trasformati in frecce e riseghe verticali, sorta di omaggio all'indimenticabile assolutismo formale di Brancusi.



Un'errata contrapposizione
L'astrazione intesa come opposizione al naturale è un luogo comune che si nutre dell'inerzia della vecchia rappresentazione realistica, sedimentatasi per secoli nel mondo occidentale. Invece proprio guardando alla natura, alle sue simmetrie e asimmetrie e ai suoi incessanti mutamenti, si trova quello che viene negato da un inveterato conformismo. Anche senza ricorrere a strumenti ottici o cristalli, erba e cielo dimostrano il trionfo della cosiddetta astrazione e nell'arte, sotto ogni latitudine e fase storica, lo si è sempre saputo e praticato. Anche dentro il trionfo della figurazione a misura d'uomo, le astrazioni e le geometrie trovavano la strada per resistere, se non altro come pretesto decorativo.



L'insegnamento del ragno
Non prendiamoci in giro: l'idea che gli artisti siano puri artefici delle loro opere è una menzogna. Per quanto riguarda il mondo delle forme e dello stesso pensiero, è sempre la natura che, attraverso il lavoro degli uomini, continua a produrre le sue infinite varianti. Dal punto di vista creativo abbiamo tutto da imparare: basta guardare la bellezza e l'esattezza della tela di un ragno per non montarsi troppo la testa.



La figurazione antropomorfa
Per lungo tempo ho volutamente relegato la rappresentazione della figura umana alla sfera dell'esercitazione e del gioco perché ero convinto del carattere anacronistico di quel fare, della sua inattualità sancita dalle avanguardie trasformatesi in assolutismo teorico. Per mia fortuna mi sono reso conto che era una cosa assurda, un po' come il Partito Rivoluzionario Istituzionale che per decenni ha governato la Repubblica Messicana! Così, insieme alle teste forate concepite inizialmente solo come supporto per i miei stilemi a freccia, si sono susseguiti anche busti e teste di fantasia. Una recente visita agli Scrovegni fatta con un vecchio amico mi ha incoraggiato a rifare a modo mio, e in forma di scultura, la testa raffigurante l'Invidia dipinta da Giotto, con un serpente che le esce dalla bocca. Da lì per un'intera estate ho poi plasmato meduse, omosauri e altro ancora senza provare alcun senso di colpa: se è vero, come dice Didi-Huberman, che "l'immagine ha spesso più memoria e più avvenire di colui che la guarda", perché preoccuparsi del presunto anacronismo delle immagini? Il loro continuo ripescare e ripensare il già stato è un segno di vitalità, di un continuo nuovo inizio. Facciano esse il loro mestiere e si lascino guardare per quel che sono, senza farsi carico delle fisime dell'autore! E, per quanto mi riguarda, non saranno certo delle povere teste di coccio a disturbare un mondo fin troppo pieno di immagini effimere.



Architettura mon amour
Confesso che ho sempre provato invidia verso gli architetti, al punto da dirmi che per un'ipotetica reincarnazione deciderei senz'altro in questo senso. Mi consola o, forse meglio, mi disturba vedere come tanta architettura dei nostri giorni è, in realtà, "scultura" in grande scala, sono oggetti nati per stupire, resi possibili dai computer e da risorse economiche senza limiti.



Sull'arte pubblica o sociale
L'Italia è forse uno dei pochi paesi dove si fa un'immensa fatica a realizzare oggetti contemporanei, siano essi architetture, sculture o altro. Farlo nei centri storici pare addirittura peggio di una bestemmia: teatri, spazi espositivi, interventi monumentali sono banditi dai centri o relegati in periferie senza volto. Pensiamo alle polemiche ancora vive sulla "scatola" di Richard Meier contenente l'Ara Pacis a Roma, o alla mancata realizzazione dell'ingresso posteriore degli Uffizi di Firenze progettato da Isozaki: o ancora, per rimanere a casa nostra, alla telenovela pluriennale sorta intorno all'Auditorium e a tutte le polemiche che hanno accompagnato la realizzazione alle Porte Contarine del monumento per le vittime delle Torri Gemelle disegnato da Libeskind. Probabilmente è un fenomeno di falsa coscienza, un tentativo di far perdonare i disastri e le speculazioni più ciniche e ignoranti consentite per decenni. È una situazione così paradossale che, con le dovute eccezioni, esalta le non poche realizzazioni intelligenti del ventennio fascista, ovviamente quelle non intrise di retorica e plateale propaganda di regime. Possibile che proprio guardando alla ricchezza della storia dell'arte italiana non si rifletta e non si capisca che la magia delle nostre città è data dal loro continuo aggiungere il nuovo al preesistente? Pare che non ci si renda conto dell'impoverimento e dell'imbal- samazione imposti da certi restauri e da certe logiche da camera mortuaria che rendono spenti luoghi sempre stati vivi e aperti di volta in volta al cambiamento.



Indispensabile inutilità
L'arte è inutile? Probabilissimo, ma si può farne a meno? Ricordo una sera in Sicilia, nella nuova Gibellina ricostruita dopo il terremoto del Belice: in alto, contro la montagna, biancheggiava il grande cretto che Burri aveva realizzato riempendo di cemento bianco i vecchi isolati del borgo distrutto. Era una cosa impressionante: in sé non significava niente, eppure l'emozione che dava era qualcosa di più di un godimento estetico per pochi addetti ai lavori, come se quell'estrema sintesi astratta descrivesse assai più di mille parole e immagini la tragedia del terremoto, la forza della natura e della bellezza…



Continuità
Anche in mie sculture molto diverse tra loro e lontanissime nei tempi di realizzazione, se viste a posteriori si trova un filo conduttore inconsapevole e costante. Penso all'Uomo seduto che realizzai a Venezia prima del '68, una scultura pop, come si diceva allora, nata contestualmente alle preoccupazioni verso un certo macchinismo industriale e al clima culturale e politico dell'uomo "a una dimensione" di Herbert Marcuse; e penso all'accumulo di centinaia di cuori e di teste in terracotta che ho modellato quarant'anni dopo, vuoti e bucati dai miei segni. Teste vuote e perciò senza cervello, che non hanno la tragicità necrofila dei teschi dell'antico Messico o della statuaria di un certo mondo barocco, ma che risultano comunque inquietanti e denunciano quello svuotamento esistenziale e quella perdita di valori e di riferimenti che già mi preoccupavano quand'ero studente all'Accademia. È come se in queste realizzazioni lontane e recenti avessi tentato di fare i conti con la storia contemporanea dell'Occidente, fatta di indiscutibili progressi ma anche di nuovi asservimenti; una riflessione sul nostro progressivo scadimento da cittadini a consumatori di merci.



Tubi e ammassi cilindrici
Quel cumulo di "tubi" di varie dimensioni, lisci o rigati che siano e plasmati con terre di diversi colori e provenienze viene senza dubbio dall'insistente guardare alle "retroguardie delle avanguardie"… Ma, ritirando subito l'ostentata cattiveria verso tante sperimentazioni importanti che ho amato e riconoscendo il valore dalla cosiddetta "arte povera", mi resta il dubbio che questi miei maccheroni altro non siano se non un'inconscia rielaborazione delle rovine di Selinunte, in particolare delle colonne cadute e ammonticchiate a fette, viste prima ancora che dal vero nei disegni e nelle stampe di Tono Zancanaro. Per dirla meglio, in quegli ammassi stravaganti con i quali mi cimento ancora si nascondono più metafore e chiavi interpretative di quante ne riconosca io stesso, che pure ne sono l'autore.



Bottoni co(s)mici
L'idea di farne un omaggio alla cosmogonia galileiana in occasione del cinquecentenario è venuta dopo. In realtà la forma tonda nasce dalla necessità di stabilire una pausa mentale nella produzione di tanti stilemi "puntuti"; tuttavia con essi è imparentata, nella rotondità delle bucature praticate in frecce e triangoli. Prima di arrivare all'uso del ferro lavorato in tondi piccoli e grandi ho plasmato per mesi, e lo faccio ancora come una sorta di interim, tante forme circolari di terracotta in varie misure, una diversa dall'altra, che mi piace definire proprio per come appa- iono: dei bottoni. Bottoni che, sospesi nello spazio, sono diventati cosmici o, parafrasando Calvino, cosmicomici… Bottoni danzanti nello spazio per divertire gli occhi e far navigare la mente.



Il Giardino dei Giusti
Il Giardino dei Giusti realizzato a Terranegra è un'opera alla quale sono molto legato, forse anche perché, a suo modo, è l'approdo ad un tema che coltivavo da anni, quello del giardino fantastico, che ho realizzato in mille piccoli modelli in gesso e in terracotta e che credevo destinato a rimanere solo una delle tante idee fine a se stesse. Anche a distanza di tempo, mi convince ancora la forza di quei grandi monoliti senza baricentro, come sconvolti dall'immane cataclisma delle guerre e dei genocidi del Novecento, che si stagliano all'interno di uno spazio delimitato da grandi muri scuri… La scelta di tale andamento asimmetrico ha trovato conforto tempo dopo, durante una visita al cimitero ebraico di Praga; lì, in un disordine magnifico, risultato della storia, del tempo e dell'incuria dell'uomo, la sovrapposizione delle centinaia di lapidi accumulatesi nei secoli sortisce un effetto che nessun disegno precostituito avrebbe saputo e potuto rendere.



Il rischio del colore
Le architetture e le sculture del lontano passato, quelle che marcavano a trecentosessanta gradi l'immagine delle città, erano tutte dipinte: non avevano niente a che vedere con l'aspetto del nudo materiale che ce ne danno oggi i nostri grandi musei. A rafforzare questa immagine slavata ci si è messo con successo il neoclassicismo, che ci ha lasciato in eredità nei suoi marmi un'idea del mondo greco e romano tutta asettica e immacolata. Il mondo antico era, invece, imbellettato; egizi e sumeri, greci e romani e, poi, il Medio Evo riempivano la scena del costruito, in antitesi a quella della natura e delle pietraie, con una sarabanda di colori che si vedono ancora in tanti interstizi dei reperti museali. Purtuttavia, oggi la scultura, quella fatta di materiali più solidi, la vediamo ormai con altri occhi: abbiamo imparato ad apprezzare la nudità delle pietre, dei getti in cemento, del bronzo e del ferro. Fors'anche per l'esigenza di capovolgere le cose anteponendo "l'oggetto d'arte" ad un paesaggio dove tutto si rivela con i caratteri della pubblicità e dei materiali prodotti in serie. Per quanto riguarda me e i miei ambiti limitati, devo ammettere che il colore mi confonde: tendo e preferire quello di materiali semplici come il cotto così come esce dalle fornaci, e prediligo la fotografia in bianco e nero perché sembra parlare di più di quella in policromia che ti frastorna e ti impedisce di andare al nocciolo di quanto stai guardando.



Africa
Non esistono cose importanti e cose banali: credo che davanti agli occhi di chi crea con le proprie mani, qualsiasi oggetto o qualsiasi suono possano rivestirsi di dignità e centralità. Scoprendo, purtroppo tardivamente, l'Africa, in particolare il Marocco di Marrakech e il Mali, mi sono trovato dentro mondi a me congeniali che parevano aspettarmi, come incontrare un parente di cui sapevi vagamente l'esistenza. Essere immerso dal vero in quel mondo è stata un'esperienza straordinaria; nessuna immagine può sostituire le sensazioni che si provano davanti alla moschea di terra di Djenne o nei villaggi abbandonati dei Telem nella falesia di Bandiagara… Lo stesso vale per le forme astratte del Marocco, i suoi materiali e le sue cromie. È stato come vivere a trecentosessanta gradi dentro un inesauribile vocabolario di forme; in particolare nella regione del Dogon, ho sentito pienamente ciò che già avevo intuito guardando le immagini dei libri, e cioè che da tanti di quegli oggetti d'uso, siano essi maschere, abitazioni o pitture iniziatiche, è nata una parte enorme dei segni della modernità che ci circonda.



Lasciare un segno
Si dice che non c'è più la vecchiaia, il che è falso ed illusorio: vero è che tutto ha un limite, ed è cosa giusta anche se dolorosa. Come traccia del mio passaggio mi piacerebbe lasciare i miei "segni" qua e là, specialmente nei nostri stupendi paesaggi veneti, laddove più limitati sono i danni della cementificazione selvaggia del progresso scorsoio, per dirla con Zanzotto. L'ambiente può sopportare delle sottolineature non invasive come testimonianze poetiche, come frammenti ludici del grande gioco cosmico dentro il quale siamo meno che granelli di ridottissima intelligenza e ciò nonostante testimoni del miracolo della vita.



Un desiderio… purché non sia l'ultimo!
Desidererei trasportare in riva al mare il mio studio, la vecchia casa fatta costruire da mia nonna fuori dalle mura, là dove allora finiva la città e iniziava una campagna a perdita d'occhio che fino ai ventidue anni è stata il mio orizzonte. Lavorare l'argilla sotto una tenda davanti al mare "montagnoso" della Croazia o disegnare su una spiaggia della Sicilia sarebbe il massimo della fortuna, e non ci sarebbero successo o denaro sufficienti con cui barattarla.



Viale del tramonto
Non so cosa sia la maturità. Penso che non lo sappia nessuno. Forse la maturità è il punto che precede il disfacimento: vale per la materia così come per gli esseri viventi e pensanti. Non si sa quanto può durare ed è opinabile se e quando sia realmente tale: dipende, come tutto, dai punti di vista. Mi auguro, comunque, di non essere ancora del tutto maturo, perché ho ancora molto da fare…



Confessione
Qualcuno mi ha detto che, a volte, parlo della mia scultura come un erudito professore che disserta con distacco di cose altrui… E allora sarò sincero: se mi costringessero a scegliere cosa buttare giù dalla torre, ciò che terrei nel modo più convinto è il lavoro artistico. A ricongiungermi con esso e a trovare un equilibrio legato al cimentarmi con la materia ho impiegato molto e molto ho perduto in termini di tempo e di occasioni. Oggi niente mi fa sentire più in pace con me stesso quanto il produrre, il manipolare e il progettare, fino al momento in cui gli oggetti emergono quasi in forma autonoma dalla terra e dalle mie mani. Vado in studio la mattina; lavoro fuori se c'è il sole, mi godo il fuoco della stufa se è inverno e la giornata scorre tranquilla e serena, e poco o nulla riesce a turbarla. Le forme si susseguono alle forme, le idee si rincorrono le une con le altre e finisce che mi trovo a sera inoltrata che vorrei continuare ancora…